Allattare oltre i primi mesi rende i bambini più fragili, insicuri o dipendenti?

 Nella prima parte di questo articolo (“Allattare oltre l’anno o fino a quando?”, che troverai qui),  la mia collega ed amica Antonella Sagone ci ha  parlato di fino a quando è utile allattare, e fino a quando è appropriato e salutare l’allattamento.

Antonella prosegue qui , parlandoci di allattamento oltre l’anno, indipendenza e attaccamento. 
Aggiungo che nella nostra pratica quotidiana come IBCLC, e anche come mamme con figli più che maggiorenni, abbiamo avuto esperienza concreta con decine e decine di bambini ormai ventenni o trentenni, e conferme inequivocabili di quanto descritto in questi articoli.  Chi frequenta un luogo gestito da Consulenti in allattamento, come Latte & Coccole, potrà vedere con i suoi occhi bambini allattati oltre l’anno e farsene un’idea :). –  Martina 

Allattare oltre i primi mesi rende i bambini più fragili, insicuri o dipendenti?

di Antonella Sagone*
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La teoria dell’attaccamento di John Bowlby mostra che il legame fra madre e figlio si articola fra contatto e distanza autoregolandosi, e adeguandosi nel tempo ai bisogni del piccolo che cresce.
Una base affettiva sicura si realizza quando il bambino non viene forzato al distacco prima che sia pronto a gestirlo emotivamente.

Il bambino che si è adattato precocemente a “far da sé”, placando i suoi bisogni affettivi in modo autoconsolatorio, non è certo quello più autonomo e sicuro: lo è piuttosto quello che è stato accudito senza limitazioni per tutto il periodo in cui ne ha manifestato il bisogno.

Paradossalmente, spesso si misura l’indipendenza in base a dove e come una persona dorme, a fino a quando è allattato, o peggio, a quanta tenerezza scambia con i suoi genitori: come se l’amore fosse una malattia… ma non si va mai a vedere quando, come e quanto i bambini, “resi indipendenti” facendoli adattare al sonno solitario o svezzandoli dal seno, abbiano potuto esercitare questa loro “indipendenza” avendo la libertà di mangiare quello che desideravano nelle quantità che desideravano, prendere decisioni sulla loro vita, vestirsi da soli, coprirsi o scoprirsi secondo il loro senso del freddo e caldo, manipolare a volontà gli oggetti di uso quotidiano, arrampicarsi e correre liberamente, scegliere chi salutare e chi no, se farsi o no sbaciucchiare dai parenti, se andare o no all’asilo, come gestire il loro tempo libero e i loro giochi.

Una volta tirata una linea che stabilisce fino a che età è accettabile e normale per un bambino aver bisogno di conforto e sicurezza dai genitori, oltre quella linea le sue richieste di poppare, essere preso in braccio, non essere separato dalla mamma in determinati momenti, verranno definite come un “sintomo” di immaturità, insicurezza, fragilità o dipendenza. Queste valutazioni possono avere un senso solo se prima si definisce obiettivamente la base biologica e fisiologica dei bisogni infantili, tenendo anche presente la variabilità individuale. Purtroppo la nostra società tira questa linea troppo, troppo precocemente rispetto al continuum di sviluppo psicobiologico infantile. Questo fa sì che la maggior parte dei genitori entri in ansia quando suo figlio o sua figlia manifesta certi bisogni oltre i primissimi anni, se non mesi, di vita, e che si senta in dovere di forzare un cambiamento verso un comportamento ritenuto più “maturo”. La conseguenza è che molti, nella nostra cultura, sono fermamente convinti che i bambini non siano capaci di evolvere autonomamente ed emanciparsi da soli dai comportamenti primali come dormire coi genitori, poppare al seno, farsi coccolare in braccio… semplicemente perché raramente si aspetta abbastanza a lungo da poter vedere i bambini abbandonare spontaneamente queste modalità di relazione con l’adulto.

Proviamo invece a vedere cosa avviene in una relazione di allattamento che proceda indisturbata evolvendosi nel tempo, fino al suo termine, alla sua spontanea conclusione.

I bambini di qualche anno che poppano al seno lo fanno in modo diverso dai neonati; e lo fanno con “stili” molto diversi. Alcuni poppano solo la sera e il pomeriggio per addormentarsi, oppure la mattina al risveglio fanno “colazione” al seno della mamma. Certi a 3-4 anni fanno ancora dei veri e propri pasti al seno, cioè poppate abbondanti, e il latte materno è ancora una componente importante della loro alimentazione. Altri invece poppano saltuariamente, quando hanno voglia, quando si ricordano, se non hanno nulla da fare, sono malati o cercano conforto; ma in altri momenti si dimenticano completamente del seno, anche per più giorni. Altri ancora, quasi fino alla fine fanno poppate molto frequenti ma brevissime, due minuti e via, ripartono alla conquista del mondo, un po’ come quei bimbi vivaci, intraprendenti ma che ogni tanto tornano fra le braccia della mamma per pochi secondi, per “ricaricarsi”.

Ovviamente tutti quanti questi bambini, nonostante gli stili diversi di poppata, fanno normalmente colazione, pranzo, merenda e cena con i cibi solidi. Inoltre tutti quanti, un po’ alla volta, si disinteressano del seno e si svezzano da soli, senza eccezioni, generalmente fra i due-tre anni e le soglie dell’età scolare.

I bambini che allattano a termine hanno maggiori difficoltà a separarsi dalla mamma e ad inserirsi, per esempio, al nido o alla materna?

La “teoria dell’abitudine”, che attribuisce enorme importanza alle routine a cui il bambino è sottoposto, induce a credere che i bimbi manchino della flessibilità necessaria a modificare le loro aspettative e adattarsi a situazioni e contesti differenti, modulando il modo in cui si relazionano agli adulti diversi dai genitori. In realtà l’esperienza dei genitori di bimbi allattati che si inseriscono al nido o alla materna è quella di vedere i loro figli imparare rapidamente altre modalità per essere consolati, accuditi o addormentati, mentre a casa continuano a richiedere queste cure nei modi in cui sono soliti riceverle dai loro genitori.

L’adattamento, insomma, dipende in realtà da quanto la proposta di separazione o l’esperienza del nido sia congruente al momento evolutivo del bambino. Una separazione forzata nel momento in cui non è ancora pronto, o effettuata con una transizione troppo frettolosa e senza la gradualità necessaria, può portare a reazioni di angoscia e rifiuto che nulla hanno a che vedere con il fatto che il bambino sia allattato o no5. Tuttavia il pregiudizio culturale, che vede come anormale l’allattamento dopo i primi mesi, fa sì che qualsiasi problema emergente venga imputato all’allattamento, invece di andare a indagare se c’è qualcosa di inappropriato nella tempistica dell’esperienza di separazione, o magari esista un reale problema ambientale o relazionale nel luogo in cui si pretende che il bambino passi molte ore, lontano dalla sua casa e dalla sua famiglia.

L’esperienza mostra che i bambini ancora allattati che fanno il loro ingresso alla materna si comportano come chi ha un attaccamento sicuro: sono molto capaci di relazionarsi sia ai coetanei che agli adulti, hanno un buon adattamento e sono spesso maggiormente empatici verso i più piccoli, sono molto collaborativi e socializzano facilmente3.

Che dire dell’allattamento oltre il terzo anno?

I bambini che si svezzano a 5, 6 e alcuni anche a 7-8 anni non sono forse numerosi come quelli che si svezzano, o sono stati svezzati, verso i 3-4 anni; ma sono comunque molti più di quanto si pensi. Considerando che nella nostra cultura in genere questa opzione riceve numerose critiche, molte madri decidono di svezzare prima del termine o comunque scoraggiare l’allattamento oltre un certo tempo, mentre altre continuano ad allattare, ma spesso non lo vanno a dire in giro. Ecco perché l’allattamento a termine, per anni invece che per mesi, è nella nostra società un fenomeno sommerso. Chi per lavoro o volontariato però si occupa di allattamento ha modo di venire a contatto con questa realtà nascosta e rendersi conto di quanto sia diversa dallo stereotipo che ne viene rappresentato dalla nostra cultura7. La rappresentazione mostra un allattamento “prolungato” (ma rispetto a quale standard?), morbosità, mamme oppressive e ansiose, bambini fragili e dipendenti. La realtà ci mostra allattamenti a termine (cioè che durano né tanto né poco, ma “quanto basta”, cioè finché il bambino non perde interesse a poppare14), mamme empatiche e responsive (ma anche rilassate e non soffocanti), bambini sicuri e affettivamente solidi, intraprendenti, con un’elevata competenza sociale, che si sanno autogestire molto bene.

Si accusa spesso la madre di voler mantenere il controllo su suo figlio, per il fatto che la si vede allattare un bambino o una bambina che parla e cammina. La definizione riduttiva di allattamento come un qualcosa che la mamma “fa” a suo figlio, e specificamente per dargli da mangiare, porta a giudicare in questo modo la madre di un bambino grande ancora allattato.

La vera autonomia

Se si accetta il presupposto che i bambini nei primi anni di vita abbiano un intenso bisogno di essere con la mamma o comunque con l’adulto che si prende cura di loro, si è in grado di valutare meglio, e senza preconcetti, i loro progressi emotivi e la loro autonomia su parametri diversi dal tempo che passano lontano dalla madre: come la capacità di relazionarsi autonomamente, di essere assertivi e comunicare con efficacia, l’abilità nel problem solving, l’autoregolazione nel mangiare, nel vestirsi, nel gioco, nell’igiene personale, eccetera4. Questi bambini, che la nostra società a due o tre anni può ancora definire “mammoni” o poco autonomi perché poppano o dormono nel letto dei genitori, mostrano dunque, su tutti i versanti, una grande capacità di autonomia, e le loro madri sono in genere più rilassate nel lasciar fare a loro, lasciarli esplorare anche da piccolissimi, senza stargli col “fiato addosso”. Sono in genere ben adattati al nido o alla materna. Sopportano bene le esperienze di separazione. Più grandi, si affermano professionalmente16, sono ben inseriti, girano il mondo, con la benedizione delle loro madri13.

L’idea perversa, fuorviata della nostra società, è quella di considerare l’autonomia come una qualità negativa (la capacità di fare a meno del sostegno degli altri, di non chiedere vicinanza, contatto, coccole), e non come una qualità positiva (saper fare, esplorare, rischiare, trovare soluzioni personali e originali). Così invece di dare si toglie: invece di incoraggiare il fare da sé, si scoraggia il contatto e l’amore, che di quel fare, di quell’iniziativa personale, sono la base sicura6.

La vera autonomia si esprime e si manifesta non nell’isolamento, ma nel sistema di relazioni umane.

È la capacità di restare centrati sui propri sentimenti e bisogni e comunicarli efficacemente, trovando modi socialmente adeguati di soddisfarli, attraverso il pieno e fiducioso utilizzo delle proprie abilità e competenze. “Indipendenza”, secondo la cultura del distacco e del controllo, è invece una qualità negativa, “non-dipendenza”, intesa come capacità di fare a meno degli altri e di “bastare emotivamente a se stessi”. Si tratta di un tragico fraintendimento, che confonde l’autonomia con l’illusione narcisistica di un’autarchia affettiva che, per una disperata sfiducia nel poter ricevere sostegno e amore dagli altri, investe affettivamente su oggetti inanimati e ottiene sicurezza e conforto attraverso il controllo degli oggetti e degli altri individui.

Non bisogna avere paura della “dipendenza” affettiva. Siamo una specie che si organizza in collettività, in cui solidi legami affettivi tengono insieme la famiglia e anche la rete dei rapporti sociali; siamo tutti reciprocamente dipendenti affettivamente gli uni dagli altri perché ci vogliamo bene e ci leghiamo fra noi. Genitori, figli, nonni, amici, amiche, fratelli, colleghi, mentori, anche fra due sconosciuti può scattare la scintilla della comprensione, della solidarietà, dell’empatia e dell’aiuto reciproco: ed è la qualità più bella, gioiosa e nobile della specie umana. Questo, e non altro, è il nostro “vizio”; e prima i bambini lo prendono, meglio sarà per loro, per noi e per l’umanità futura.

 

* Antonella Sagone, IBCLC, psicologa

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Bibliografia

 

  1. Academy of Breastfeeding Medicine Press Release: ABM affirms breastfeeding beyond infancy as the biological norm. May 15, 2012.
  2. Acheson L. Family violence and breast-feeding. Arch Fam Med 1995;4(7):650-52.
  3. Baumgartner C. Psychomotor and Social Development of Breast Fed and Bottle Fed babies During their First year of Life. Acta Paediatrica Hungarica, 1984
  4. Bortolotti A. E se poi prende il vizio? Il leone verde, 2010.
  5. Bortolotti, A. Poi la mamma torna. Mondadori, 2017.
  6. Bowlby, J. Una base sicura. Cortina, 1988.
  7. Bumgarner NJ. Allatti ancora? La Leche League, 2007.
  8. Dettwyler K. A time to Wean: The Hominid Blueprint for the Natural Age of Weaning in Modern Human Populations, in: Breastfeeding: biocultural perspectives. Aldine de Gruyter 1995.
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  11. Horta BL, et al. Evidence on the long-term effects of breastfeeding. Systematic reviews and meta-analysis. WHO 2007.
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  14. Sagone A. Allattamento al seno Q.B. Atti della giornata di studio su Salute e allattamento al seno, Regione Piemonte, 2000.
  15. Strathearn L, Mamun AA et al. Does breastfeeding protect against substantiated child abuse and neglect? A 15-year cohort study. Pediatrics 2009;123(2):483-93.
  16. Victora CG et al. Association between breastfeeding and intelligence, educational attainment, and income at 30 years of age: a prospective birth cohort study from Brazil. Lancet 2015;3(4):e199-e205.
  17. Walant KB. Creating the capacity for attachment. Northvale (NJ): Jason Aronson Inc. 1995.

 

                                                                                                                                                                                                      Photo credits: http://www.nursingnurture.com/toddler-nursing/


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