Allattare oltre l’anno o fino a quando?

Questa settimana ho chiesto alla mia cara amica e collega Antonella Sagone, psicologa ed IBCLC, di scrivere un articolo sull’allattamento dopo i primi mesi. Infatti c’è molta confusione su “cosa sia bene” dal punto di vista psicologico, e spesso le mamme vengono avvisate, se non minacciate, che se non staccheranno i loro bambini dal seno entro… 9 mesi, un anno, un anno e mezzo, a seconda dell’idea di chi hanno di fronte, il bambino avrà danni psicologici di vario genere. Antonella ci fa un po’ di chiarezza sull’argomento. – Martina

 

Allattare oltre l’anno o fino a quando?

di Antonella Sagone*

Anche nella nostra cultura, sta tornando a crescere il numero di madri che allattano i loro figli oltre i primi mesi, o forse semplicemente aumenta il numero di donne che non nascondono il loro allattamento di bambini che non sono più neonati, ma camminano e parlano.

Questo viene spesso visto come qualcosa di insolito, di inappropriato o di non consigliabile. Quando si è di fronte a un bambino o una bambina allattati non per mesi, ma per anni, in genere le domande che vengono poste sono due:

  • fino a quando è utile allattare?
  • fino a quando è appropriato e salutare l’allattamento?

Queste domande sottintendono l’idea che dopo un certo momento l’allattamento possa essere una pratica inutile e, forse, dannosa. A volte non si tratta di sottintesi, ma di critiche esplicite che la madre, se allatta seguendo la richiesta del bambino, deve fronteggiare.

Fino a quando allattare è necessario o addirittura indispensabile?

A questa prima domanda si può rispondere prima di tutto con una riflessione: perché mai dovremmo togliere – se pure fosse – alla mamma e al bambino un qualcosa di “non necessario”,  se è gradito? Anche la banana o l’insalata sono “non indispensabili”, ma non per questa ragione si fanno pressioni ai genitori perché non se ne dia più al bebè dopo i primi mesi… se è per questo, non si fa pressione per togliere ai bambini nemmeno prodotti veramente inutili, come la caramella o la merendina. Perché allora togliere loro il latte materno appena questo fosse (e così non è) diventato inutile o “non più indispensabile”?

Tutte le ricerche d’altronde mostrano che il latte materno è benefico e salutare a tutte le età, e a prescindere dalla durata dell’allattamento viene sempre prodotto con tutti i nutrienti e i preziosi fattori non nutritivi che ne fanno molto più di un alimento12: un sistema di sostegno biologico per l’intero organismo e per la salute presente e futura del lattante11.

Va ricordato che l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda caldamente di allattare al seno in modo esclusivo per i primi sei mesi di vita, e in seguito affiancare (e non sostituire) i cibi solidi al latte materno, che dovrebbe continuare a essere l’alimento principale per tutto il primo anno9. L’OMS infine invita a mantenere l’allattamento almeno fino ai due anni di età, specificando che si può continuare ad allattare anche in seguito per tutto il tempo che madre e figlio lo desiderano, poiché questo non è in alcun modo nocivo e anzi il latte materno mantiene, per entrambi, benefici effetti di salute, tanto maggiori quanto più a lungo si allatta10. Queste raccomandazioni non sono riservate solo ai Paesi emergenti, ma anche a quelli industrializzati, e si rivolgono non solo ai medici od operatori sanitari ma a tutti i soggetti coinvolti: terapeuti, psicologi, magistrati, divulgatori, operatori sociali, volontari, amministratori, governi, Aziende, Organizzazioni, nonché le famiglie in generale.

Vengono però spesso sollevate perplessità sull’impatto psicologico dell’allattamento in un bambino o una bambina più grande. Domande, teorie e consigli si moltiplicano, spesso in modo contrastante, da parte dei genitori come degli “addetti ai lavori”: psicologi, medici, altri operatori e figure di sostegno che affiancano la donna.

 Fino a quando allattare è appropriato?

«Poppare è roba da neonati», si sente dire a volte; e anche «Se ha i denti deve mangiare, e non prendere ancora il latte della mamma».

Non bisogna aver paura di una parola. “Lattante” significa semplicemente bambino che ancora poppa il latte della mamma. Non ha connotazioni morali, o di livello evolutivo, o di età. È come dire “anglofono”: chi parla inglese. È la cultura ad aver stabilito arbitrariamente una linea a una certa età, dicendo che fin lì va bene essere lattanti, dopo non va più bene e non è più normale. Questa linea viene tracciata in un momento diverso della vita a seconda dell’epoca, della cultura e della società in cui ci si trova. Da noi la visione riduttiva dell’allattamento come un mero sistema per nutrire il bebè, e l’idea errata che i cibi solidi vadano inseriti non come complemento ma in sostituzione delle poppate, ha fatto coincidere l’idea di lattante con quella del neonato che poppa esclusivamente al seno, cioè che si nutre solo di latte; tracciando di conseguenza questa linea molto, molto prima di quando fisiologicamente il bambino umano si svezzi dal seno in natura. Si ha l’idea che il latte materno venga prima, e poi sia sostituito dal cibo solido, e quindi «basta latte». Ma non funziona così, né negli umani, né nelle altre specie mammifere. A un certo punto il cucciolo inizia a mangiare, ma poppa ancora; e poi diminuisce le poppate fino a perdere interesse. Nella specie umana, l’antropologa Katherine Dettwyler8 ha identificato questo momento fra i 3 e i 7 anni. Quando non si interferiva, era così che succedeva: il periodo dell’allattamento finiva più o meno con la fine della prima dentizione e l’eruzione dei primi denti permanenti. Per questo li hanno chiamati denti da latte: perché coincidono con il periodo in cui i bambini ancora cercano il seno e poppano.

 Se l’allattamento dopo i primi mesi fa bene, quali sono le prove?

Tante volte si chiedono a gran voce le “prove scientifiche” dei benefici psicologici (o meglio della “innocuità”) dell’allattamento che dura più dei primi mesi, o “addirittura” per diversi anni.

A questo link (in inglese, sorry) si trova una bibliografia di circa 200 voci sui benefici dell’allattamento oltre i primi mesi, raggruppati per tipologia. E non è ancora una lista esaustiva…

Comunque, più dura nel tempo l’allattamento, meno esistono studi che ne documentino gli effetti sia dal punto di vista della salute fisica, sia ancor più di quella psicoaffettiva. Ci sono studi che mostrano una relazione dose-risposta fra allattamento e salute, ma non si spingono in genere oltre il secondo o terzo anno, e spesso si limitano ai sei mesi. Però è ragionevole pensare che la relazione dose-risposta fra durata dell’allattamento e benefici di salute si mantenga tale anche per età successive.

Gli studi sull’allattamento possono essere solo retrospettivi, osservazionali, su base epidemiologica, dato che non si può obbligare una madre o un bambino a scegliere di interrompere o proseguire l’allattamento, non sarebbe etico ma soprattutto non sarebbe fattibile perché, per fortuna, sono i bambini a decidere se poppare ancora o interrompere, e sono le madri che decidono se dare o meno la loro disponibilità e concedere il seno.

Condurre uno studio con soggetti più avanti di età incontra la difficoltà di raccogliere un numero significativo di casi, anche se qualche ricerca esiste, e può rassicurare sapere che non vi sono studi che mostrino, a qualsiasi età, la dannosità dell’allattamento. Per bambini molto grandi ci sono solo dati aneddotici, e già questi possono rassicurare, dato che raccolgono un ampio numero di casi di adulti psicologicamente sani che sono stati allattati nell’infanzia anche per 6-8 anni. Comunque possiamo fare una riflessione di tipo antropologico e guardare alle popolazioni nelle quali ancora oggi allattare molti anni è considerato normale, e che producono adulti nel range della normale salute mentale, così come anche osservare come nelle generazioni passate, quando allattare per anni era la normalità, non vi era una maggiore incidenza di patologie: anzi, per certi versi, la presenza “epidemica” di certe patologie attuali, come la depressione, le dipendenze, i disturbi dell’alimentazione, sembra coesistere con la prevalenza di allattamenti di breve durata e di stili di accudimento basati sul distacco e l’autonomizzazione precoce.

La riflessione cruciale da fare, quando ci si pongono domande e si imposta uno studio, è chiedersi qual è lo standard di riferimento e qual è la deviazione da questo standard. Così come non si richiedono le prove di “non nocività” del respirare aria pulita, ma si studiano semmai i possibili danni dell’inquinamento o del fumo, allo stesso modo non si dovrebbero richiedere le prove dei rischi di allattare finché lo si desidera, ma si dovrebbero studiare semmai i possibili danni organici e psicologici dell’interrompere questa relazione prima che si estingua naturalmente da sé.

Allattare al seno è la norma biologica, affinata da milioni di anni di evoluzione1, e in società non ancora disturbate da norme e limiti specifici imposti al legame madre-figlio, questo si esprime normalmente con anni di allattamento al seno, sonno condiviso, cure prossimali (ad esempio portare in braccio o in fascia, coccolare, contatto pelle a pelle), introduzione dei cibi solidi sotto forma di condivisione dei cibi della famiglia e in modo informale e autoregolato dal bambino, e infine svezzamento spontaneo dal seno in un’età compresa in genere fra il terzo e l’ottavo anno. A questo punto, ci si dovrebbe interrogare, più che sulla salubrità o sicurezza o appropriatezza di questa modalità di accudimento, sulla salubrità, sicurezza e appropriatezza di un’interferenza a questi processi, che si esprime ostacolando attivamente le cure prossimali o riducendole drasticamente nei modi e nella durata, e forzando precocemente al sonno separato, allo svezzamento dal seno, all’alimentazione solida, alla separazione fra madre e bambino.

In poche parole, ponendo l’allattamento al seno come norma biologica, si dovrebbe dare per scontato che, poiché non ci sono studi che mostrino un danno nell’allattare oltre i primi mesi, questo sia benefico e salutare come qualsiasi processo fisiologico; fino a prova contraria.

Esiste una correlazione tra allattamento “prolungato” e sviluppo di disturbi della sfera sessuale o abusi sessuali?

Vi sono alcuni studi (USA, Thailandia, Russia) che mostrano come il non allattamento al seno o la sua precoce interruzione (nel primo semestre di vita) sia associata a una proporzione significativamente più alta di bambini abbandonati, negletti, oppure fisicamente o psicologicamente maltrattati2, 15. Non stiamo parlando però specificamente di abusi sessuali; inoltre non ci sono studi che abbiano esplorato la relazione (diretta o inversa) fra abusi sessuali e durata dell’allattamento oltre il primo semestre di vita.

Penso tuttavia che dal punto di vista psicologico ci si debba porre come per qualsiasi altra questione, cioè valutando il caso individuale e non basandosi sul presupposto che un certo comportamento, avulso dal contesto in cui si verifica, sia di per sé sintomo di un disagio o una disfunzione. Certo, le relazioni disfunzionali esistono e così anche i disturbi della sfera sessuale; ma vanno visti caso per caso, e allattare non può essere inteso come un indicatore del disagio psicologico, più di quanto non lo possa essere inteso il prendere in braccio o baciare il bambino, perché tutti questi sono gesti naturali e coerenti con la natura della relazione madre-figlio nei primi anni di vita.

Nella nostra cultura siamo propensi a restringere il significato di sessualità alla sola relazione di coppia, e minimizzare o negare ogni altro aspetto della sessualità femminile che non implichi la presenza del partner. Ma la vita sessuale della donna si snoda in una serie di eventi dei quali soltanto uno richiede la presenza del proprio partner sessuale. Ciclo mestruale, gravidanza, parto, allattamento sono condizioni mediate spesso dagli stessi ormoni, che modulano la sessualità femminile in tanti modi. L’ossitocina, detta anche ormone dell’amore, guida molti di questi momenti, generando le contrazioni uterine non solo nell’orgasmo, ma anche durante le mestruazioni e il parto, e innescando il riflesso di emissione del latte ogni volta che il bebè poppa al seno. Il rilascio di questo ormone, spesso associato alle endorfine, genera sensazioni di estasi, piacere, tenerezza e di fatto permette ai legami affettivi di sbocciare e di consolidarsi17. Per questo motivo l’ossitocina viene anche definita ormone pro-sociale, perché rafforza i legami fra gli individui e quindi mantiene coesione all’interno del gruppo umano, con un’enorme valenza dal punto di vista della capacità del gruppo di sopravvivere.

Il problema della nostra cultura è che spesso gli aspetti della sessualità e dell’amore che non riguardano la relazione di coppia vengono ignorati o negati. La sessualità fra uomo e donna diviene non solo il modello di riferimento, ma anche l’unico modello possibile per definire le tante facce dell’amore.

Allora ecco che l’intimità e il piacere che stanno dietro una relazione di allattamento possono mettere a disagio, ed essere travisati e definiti come “morbosi”, invece che essere visti per quello che sono: mirabili e delicati strumenti che la selezione naturale ha messo a punto nei mammiferi, per garantire le cure parentali e la coesione fra gli individui.

E di nuovo, è la nostra cultura ad attribuire significati sessuali ed erotici al seno, dimenticando che esso è in primo luogo l’organo per accudire e nutrire i bambini. Qualsiasi zona sensibile del corpo può essere coinvolta nell’attività sessuale fra due partner, qualsiasi gesto, anche mutuato dai comportamenti amicali, parentali o filiali, può essere incorporato nei giochi erotici, ma non per questo deve venire acquisito come esclusivo dell’erotismo di coppia! È pertanto l’uso erotico del seno a dover essere considerato una “variante”, un impiego secondario di questa parte del corpo della donna.

Così come la relazione fra una madre e il suo bambino non ha nulla a che fare con una relazione coniugale, allo stesso modo l’intimità e il piacere fra loro non ha nulla a che fare con la qualità sessuale che caratterizza una relazione di coppia. Questo dato di realtà non cambia con il crescere del bebè: un bambino ai primi passi continua a non fare distinzioni qualitative fra seno e braccia della mamma, fra latte e coccole, e non vede certo il seno, di punto in bianco al compimento del secondo o terzo anno di vita, trasformarsi in un accessorio erotico femminile, bensì continua a considerare la poppata come una fra le tante modalità attraverso le quali ottenere conforto e nutrimento e mantenere il contatto e la vicinanza con la mamma.

Nello stesso modo, per la madre l’atto di allattare non cambia connotazioni solo perché il suo piccolo parla o cammina: rimane sempre lo stesso gesto di accudimento materno, un gesto che, spero sia ben chiaro questo punto, non parte dalla madre ma risponde a una richiesta del bambino. Non vi sono connotazioni “sessuali” in senso adulto nel gesto di allattare; nessuno studio può dimostrare legami fra abuso sessuale e allattamento, essendo l’abuso infantile legato anzi a un’incapacità di interpretare correttamente e rispondere ai bisogni del bambino, laddove l’allattamento si fonda proprio su questa capacità di comprendere adeguatamente i segnali dei bambini, e su legami di attaccamento sicuro e funzionale.

Non vi sono nemmeno studi che mostrino una relazione fra allattare oltre i primi mesi e sviluppo nel bambino di disturbi nella sfera della sessualità nell’adolescenza o l’età adulta: di nuovo qui si sta proiettando il fantasma dell’incesto in una relazione che è fisiologica e prevista dalla natura.

Se un disagio psicologico può ipotizzarsi in una madre e un bambino che portano avanti oltre l’anno la loro relazione di allattamento, questo potrebbe essere semmai imputato alla dissonanza fra le aspettative sociali e culturali e ciò che naturalmente madre e figlio sentono giusto e spontaneo fare, cioè continuare ad allattare fino al termine naturale; e sono semmai le pressioni, i giudizi e l’opposizione attiva della società intorno a loro, che continua a mandare messaggi di disconferma e squalifica, a far sentire il bambino “sbagliato” e la madre insicura, inadeguata o perversa, instillando in lei il dubbio di nuocere a suo figlio.

Per un bambino o una bambina sentirsi dire: «Ma come, ancora poppi? Sei grande ormai!» non ha alcun senso: infatti poppa secondo ciò che in quel momento è, secondo l’età che ha e la fase evolutiva in cui si trova, e l’allattamento non è per lui o per lei (e non lo è per la fisiologia umana) un atto legato esclusivamente ai primi mesi di vita.

Allo stesso modo, per una donna che, ad esempio, risponde alla richiesta di sua figlia offrendo il seno, sentirsi dire «Sei tu che la vuoi costringere a poppare per mantenerla piccola, è a te che piace, sei egoista a non volerla svezzare» è ugualmente privo di senso e concordanza con il suo sentire e la sua esperienza: infatti la madre sa più che bene come sia impossibile imporre a un bambino riluttante di poppare, e sa quanto la propria disponibilità a concedere il seno sia un gesto che va oltre i suoi personali bisogni e risponda invece a quelli di suo figlio.

Quindi semmai la domanda cruciale potrebbe essere: qual è per il bambino (e per la mamma) l’impatto psicologico di una cultura sessualizzante rispetto al seno, qualora si effettui l’allattamento a termine?

 È la madre a trattenere suo figlio nella relazione di allattamento, non essendo pronta a “lasciarlo crescere”?

Questa insistenza a puntare il dito sulla madre quando un bambino ai primi passi, o anche più grande, chiede di poppare al seno, denota la poca conoscenza e comprensione di come funziona una relazione di allattamento.

In realtà il bambino è il solo che può avviare e poi mantenere un allattamento. Mentre bere da un biberon (che viene introdotto in bocca e dal quale il latte sgorga senza ostacoli), essere imboccato, essere vestito o lavato sono esperienze passive, poppare è sempre un’azione attiva: se non è il bebè a poppare, e a farlo nel modo corretto, il latte dal seno non può uscire. Allattare non è qualcosa che la madre fa al bambino, ma qualcosa che il bambino fa alla madre. Ogni madre sa bene cosa avviene se cerca di far poppare al seno un bimbo che non ne ha voglia: se è piccolo, girerà la testa dall’altra parte, o piangerà, o popperà per poco tempo e in modo poco efficace. Se è grande, protesterà con ancora maggiore chiarezza: «No, voglio la mela!», oppure concederà, per compiacenza, pochi secondi di suzione non nutritiva per poi staccarsi e andare allegramente a fare qualcosa che gli interessa di più in quel momento.

Certi manuali, e certi approcci pedagogici, forzano la madre ad arrovellarsi inutilmente, cercando di capire quale sia il momento “giusto” per dare il seno e quale sia invece quello “sbagliato”, o a cercare di interpretare il pianto del neonato per dare “la risposta appropriata e non sempre il seno”. In realtà l’allattamento, non potendo essere “subìto” (diversamente da altre azioni di accudimento, come imboccare o mettere il golfino di lana), offre questa meravigliosa semplicità, per la mamma, di poter tentare per prima l’offerta del seno, senza tema di essere riduttiva o ripetitiva, perché se il bebè poppa, significa che il seno risponde al bisogno, mentre se non è la risposta giusta, non popperà. E il rifiuto sarà ancora più deciso con un bambino più grande.

La nostra società però non è più avvezza alla vista di un bambino ai primi passi che va al seno, e rimane sconcertata. “Insolito” diviene “anormale”, e si pensa che sia impossibile che un bambino o una bambina possa normalmente desiderare il seno anche se ha “già” qualche anno. Come logica deduzione, si attribuisce quindi alla madre la responsabilità di allattare. Ho sentito spiegazioni incredibilmente contorte per spiegare il normale e fisiologico fenomeno di un bambino grande che va al seno: «In realtà sei tu che ti senti minacciata da un senso di abbandono se tua figlia cresce e si emancipa dal seno, e quindi desideri che resti come una piccola neonata che vuole ancora poppare; e tua figlia ti chiede il seno perché percependo questo tuo bisogno è protettiva nei tuoi confronti e asseconda il tuo desiderio inespresso».

Perché tanta complicazione? Il filosofo del XIV secolo Guglielmo di Occam, attraverso un principio logico noto come il “rasoio di Occam”, tutt’ora alla base del pensiero scientifico moderno, afferma che nel formulare una spiegazione vanno evitati tutti i postulati inutili: in altre parole, la spiegazione più semplice tende a essere quella giusta. Se il bambino di uno, due, tre o più anni quindi chiede di poppare, forse, semplicemente lo fa perché in quel momento desidera poppare!

A volte si dipinge la madre che allatta a termine come una persona fragile, ansiosa, debole, che cede alla richiesta del bambino semplicemente perché non ha la forza di dirgli di no. Le mamme che allattano oltre i primi mesi, in realtà, sono in genere madri forti e volitive, in quanto capaci di opporsi alle pressioni esterne che la esortano a “staccarsi” dal figlio. Sono sensibili e attente ai segnali che il bambino manda, ai suoi sentimenti e bisogni, e resistono a chi le incita a non rispondere a questi bisogni e sentimenti. Inoltre sono perfettamente capaci, e lo fanno, di dire no alla richiesta di una poppata, o al prendere in braccio, o al giocare insieme e quant’altro. Allattare non è che una fra le tante possibili interazioni fra madre e bambino e, nell’arco della giornata, capita tante volte che si debba dire di no o dare dei limiti, semplicemente perché in quel momento ciò che viene richiesto non è fattibile od opportuno. Dire al proprio figlio, ormai abbastanza grande per capire (e anche a volte per discutere e contrattare), «Adesso no perché sono stanca» oppure «Adesso no perché devo finire di cucinare», è un’esperienza abituale che anche le madri che allattano compiono più volte durante la giornata, e anche rispetto alla richiesta di poppare. Quello che queste madri non trovano necessario o giusto fare è dire ai loro figli di no anche quando non vi sono motivi contingenti per rifiutare il seno, in nome di un principio pedagogico astratto e non dimostrato. «No perché sei ormai grande» è un concetto arbitrario e incongruo non solo per il bambino, ma anche per sua madre, che conosce bene i bisogni di suo figlio e sa che, quando sarà il momento, il bisogno di poppare svanirà da solo così come altri bisogni infantili.

A volte le mamme parlano con malinconia o rimpianto del fatto che il bambino si sta svezzando. Apriti cielo! Ciò viene subito addotto come “prova” del fatto che l’allattamento parta da un bisogno materno invece che da una richiesta del bambino. Ma bisogna distinguere. Queste mamme stanno esprimendo un sentimento molto umano. Dicono «Non credo di essere pronta per la fine della relazione di allattamento»: non dicono «Farò di tutto per impedire che questa relazione finisca». Quindi prima di balzare alle conclusioni che si tratta di madri che non vogliono far crescere i loro figli, fermiamoci un attimo ad ascoltare veramente, e distinguiamo i sentimenti e i bisogni dalle intenzioni e dai comportamenti.

Io credo che noi genitori non siamo mai pronti ai balzi in avanti dei nostri figli. Ci adeguiamo a una fase, ma loro vanno sempre oltre, sono sempre in evoluzione. Siamo noi che corriamo loro dietro e ci adattiamo, anche con gioia e orgoglio, ma nello stesso tempo ogni volta è un salto nel buio ed è l’abbandono di un equilibrio precedente, che è stato anche bello e gratificante. La donna non è mai veramente pronta a diventare madre: è sempre un atto di coraggio e di fede dare la vita a un altro essere umano, con tutte le incognite che ci sono. Si dice addio alla vita spensierata con una punta di rimpianto, ma anche di entusiasmo per la nuova avventura. La gestante non è mai veramente pronta a partorire: ha paura, ma quando arriva il momento, partorisce, eccome! E se non la si disturba, è un momento attivo, di grande potenza vitale. E così quando un figlio fa i bagagli e va a vivere da solo, credete che, anche in una relazione parentale sana e matura, la madre sia pronta? Le mancherà la presenza quotidiana di suo figlio in casa. C’è un po’ di malinconia. Ma non viene trattenuto. E la relazione si evolve come quella fra due adulti. Una cosa sono i sentimenti, una cosa sono gli atteggiamenti. Essere consapevoli dei nostri sentimenti e accettarli ci aiuta a non esserne influenzati quando dobbiamo scegliere come rapportarci ai nostri figli che cambiano e si evolvono.

*Antonella Sagone, IBCLC, psicologa

 

 Ma allora è vero o no che allattare oltre i primi mesi rende i bambini più fragili, insicuri, dipendenti?

Nel prossimo articolo Antonella ci parlerà anche di questo altro mito, se non vuoi perderlo iscriviti alla newsletter dal form qui a destra

 

Bibliografia

 

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