Cronache da un campo profughi – 2

Oggi ti racconto ancora, con un po’ di ritardo, qualcosa della mia esperienza di settembre al campo profughi in Grecia. Trovi la prima “puntata” di questa avventura con il mio arrivo rocambolesco alla base di NPI cliccando qua.

Il giorno della partenza ho ammirato l’alba da Ciampino

e il tramonto da Salonicco.

Nel mezzo, essendo domenica, teoricamente le volontarie sono libere (regola messa da poco, altrimenti prima si andava al campo 7 giorni su 7), ma oggi c’è un’ostetrica in pensione che sta per tornare a casa che si è organizzata per andare in centro città a distribuire un po’ di cibo (mele e datteri ) ai profughi che stanno per strada. Infatti non tutti sono così “fortunati” da stare in un campo, e alcuni – anche con bambini piccoli – vivono per strada e dormono la notte nei giardini pubblici. Per capire chi è un profugo e offrire il cibo sena offendere nessuno, lei riconosce dei “segni tipici”, come il fatto di stare in disparte in gruppetti nei parchi… allora ci avviciniamo, salutiamo in arabo e chiediamo se l’offerta è gradita. La gente ci ringrazia e benedice. Pranziamo alle 4 del pomeriggio dopo aver vuotato le buste, in un locale incastrato in un cortile, acciughe salate, formaggio, pane e olive. Benvenuta in Grecia!

Tornate nell’appartamento che NPI ha affittato per le volontarie trovo il gruppo di ragazze di 3 continenti diversi che mangiano tutte insieme e organizzano per il giorno appresso… mi danno molte istruzioni su quello che sarà il mio compito al campo e quindi ce ne andiamo a dormire, sono stracotta ma nonostante questo fatico ad addormentarmi per l’emozione e l’ansia.

Sindos giorno 1 al campo

Arriviamo al campo un po’ prima delle 10… per arrivare usciamo dall’autostrada in una specie di autogrill, poi da lì percorriamo una strada extraurbana per un km circa e quindi svoltiamo in una traversa che va diritta nel… bel mezzo del niente! No, mi correggo, ogni mezzo km c’è un capannone industriale che fabbrica chissà cosa. In effetti il campo è stato messo “dentro ” a un capannone industriale dismesso dove una volta c’era una conceria industriale, uno dei generi di industria più inquinante al mondo. Proprio un bel posto dove stare con mamme incinte e bambini.
Parcheggiamo fuori e scarichiamo roba da portare nella tenda della ONG.
Ora immaginate questo capannone enorme diviso in 3 grandi “navate” al cui “interno” sono state messe tante tende, una appiccicata all’altra in 2 o 3 lunghe file ciascuna.
Noi arriviamo più o meno un po’ prima delle 10, ma si vede ancora poca gente in giro, a parte i bambini di tutte le età. Qui infatti la gente si alza tardi, perché la notte non è esattamente riposante come nel mio comodo letto, e non hanno niente da fare per buona parte della giornata, quindi quando entriamo le tende sono ancora quasi tutte chiuse e ci sono poche persone già fuori. .. alcune donne sono fuori sedute vicino alla recinzione a chiacchierare. Diversi uomini in giro. .. e un paio di soldati che presidiano.

Siccome è il mio primo giorno devo andare a registrarmi presso i militari.
Ora, non so per voi, ma per me non è una cosa normale doversi registrare presso la polizia, e mi fa un certo effetto. Vivere in un paese civile e senza guerra significa che hai a che fare con la polizia  al massimo se non rispetti il codice della strada..
Questa gente, che prima aveva una vita normale come me e come te, ora vive in queste condizioni. Non ho nessun merito rispetto a loro. Sarei potuta nascere ad Aleppo ed essere al loro posto!

Ecco come si presenta l’interno del campo:

Devo fare la foto quando non c’è gente, perché è vietato riprendere le persone senza il loro permesso, e in generale per la loro sicurezza. Quando ho letto per la prima volta la valanga di documenti da studiare e firmare, tra cui questa clausola della sicurezza, forse per la prima volta ho “iniziati ” che cosa significa scappare dalla guerra. Cosa significa essere un profugo.

La verità è che per quanto ci possiamo sforzare guardando il TG, noi occidentali non ne abbiamo la più vaga idea.

Sorvolo anche sul documento dove ho firmato per dichiarare che ero consapevole del fatto che sarei potuta trovarmi in situazioni pericolose per la mia vita, e indicare il nome e telefono del familiare a cui rivolgersi in caso di necessità. Non che io mi spaventi facilmente, nè questa è una situazione pericolosa davvero (Nota di Martina: avevo scritto questo testo prima dell’attacco al campo di Chios, dove alcuni operatori come me in quei giorni, sono stati feriti). Questo è un campo di seconda accoglienza. Qui non arrivano i barconi, per intenderci, e le persone stanno relativamente bene. Non è Lampedusa, dove sbarcano persone allo stremo, se non sono morte nel viaggio.

Ma il “relativamente bene” significa che sono già passati da quell’orrore, e chissà quanti di loro hanno perso famigliari e amici, sotto le bombe, o tentando di salvarsi per arrivare qui generalmente dopo qualche mese di stazionamento in posti simili a Lampedusa.  E “qui” sta per una tenda in un capannone industriale dismesso, senza acqua corrente, luce o gas, il bagno chimico comune all’esterno, e le docce all’aperto come quando io vado in campeggio… senza un lavoro, un futuro, in mezzo al nulla, dove si mangia grazie alle razioni distribuite dall’esercito, con la polizia che apre la mattina e chiude la sera, in un paese dove si parla una lingua incomprensibile ai più, senza sapere che fine faranno. Non si sa tra l’altro quanto tempo resterà aperto il campo, e dove andranno dopo.

Nonostante tutto, non ero preparata a “tutto” questo… ma non ho tempo per analizzare i miei sentimenti, si inizia a lavorare!

La storia prosegue col prossimo articolo …


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